Gramsci e la cultura classica

Gramsci e la cultura classica. Perché studiare il latino e il greco? E che cultura di base deve dare la scuola, per formare innanzitutto persone, ragazzi e ragazze dotati di cultura e coscienza critica, cittadini? Dibattito antico. E continuamente riproposto, anche sulle questioni chiave della qualità dell’educazione, dell’utilità degli studi, del rapporto tra scuola e lavoro. Per aggiungere strumenti di riflessione, vale la pena anche rileggere uno dei più grandi studiosi del nostro Novecento, Antonio Gramsci, nelle pagine dei “Quaderni del carcere” dedicate appunto allo studio del latino e del greco.

Scrive Gramsci: “Non si impara il latino e il greco per parlare queste lingue, per fare i camerieri o gli interpreti o che so io. Si imparano per conoscere la civiltà dei due popoli, la cui vita si pone come base della cultura mondiale. La lingua latina o greca si impara secondo grammatica, un po’ meccanicamente: ma c’è molta esagerazione nell’accusa di meccanicità e aridità. Si ha che fare con dei ragazzetti, ai quali occorre far contrarre certe abitudini di diligenza, di esattezza, di compostezza fisica, di concentrazione psichica in determinati oggetti. Uno studioso di trenta-quarant’anni sarebbe capace di stare a tavolino sedici ore filate, se da bambino non avesse coattivamente, per coercizione meccanica assunto le abitudini psicofisiche conformi? Se si vogliono allevare anche degli studiosi, occorre incominciare da lì e occorre premere su tutti per avere quelle migliaia, o centinaia, o anche solo dozzine di studiosi di gran nerbo, di cui ogni civiltà ha bisogno“.

Insiste Gramsci: “Il latino non si studia per imparare il latino, si studia per abituare i ragazzi a studiare, ad analizzare un corpo storico che si può trattare come un cadavere ma che continuamente si ricompone in vita. Naturalmente io non credo che il latino e il greco abbiano delle qualità taumaturgiche intrinseche: dico che in un dato ambiente, in una data cultura, con una data tradizione, lo studio così graduato dava quei determinati effetti. Si può sostituire il latino e il greco e li si sostituirà utilmente, ma occorrerà sapere disporre didatticamente la nuova materia o la nuova serie di materie, in modo da ottenere risultati equivalenti di educazione generale dell’uomo, partendo dal ragazzetto fino all’età della scelta professionale. In questo periodo lo studio o la parte maggiore dello studio deve essere disinteressato, cioè non avere scopi pratici immediati o troppo immediatamente mediati: deve essere formativo, anche se istruttivo, cioè ricco di nozioni concrete”. Gramsci pone qui anche una interessante apertura, verso altre discipline formative, oltre il latino e il greco, in chiave di “educazione generale”.

E lo spunto può essere utile per insistere su una questione d’attualità: l’importanza di una seria formazione scientifica, carente, nelle scuole italiane ma indispensabile non solo e non tanto in chiave di strumento di sviluppo economico, ma soprattutto in termini di consapevolezza civile, di cittadinanza responsabile (sulle questioni scientifiche, di bio-etica, di ambiente, etc. che incidono sulla nostra vita quotidiana). Una formazione da “cultura politecnica”. Cui riconduce la stessa lezione gramsciana. Il greco, d’altronde – val la pena ricordarlo – non è solo la lingua dei filosofi, dei poeti e dei drammaturghi, ma anche degli scienziati, dei matematici, degli astronomi: la lingua d’una cultura scientifica che fa da base dei nostri saperi attuali. D’una civiltà – riecco una parola chiave – appunto “politecnica”.

C’è, nelle pagine dei “Quaderni”, una indicazione precisa, sull’utilità dello studio. È scritta negli anni Trenta, altre stagioni storiche, altre tempeste politiche e ideali (Gramsci, leader del Pci, era nelle carcere del regime fascista, ma era molto criticato anche da membri del suo partito sensibili all’ortodossia comunista sovietica). Eppure lì, nel chiuso di una cella, aveva ben chiara la lezione storica della cultura italiana e l’esigenza di porre le basi, oltre il fascismo, d’una nuova democrazia, popolare e partecipata. Coinvolgendo appunto la scuola: “Nella scuola moderna mi pare stia avvenendo un processo di progressiva degenerazione: la scuola di tipo professionale, cioè preoccupata di un immediato interesse pratico, prende il sopravvento sulla scuola “formativa” immediatamente disinteressata.

La cosa più paradossale è che questo tipo di scuola appare e viene predicata come “democratica”, mentre invece essa è proprio destinata a perpetuare le differenze sociali. Il carattere sociale della scuola è dato dal fatto che ogni strato sociale ha un proprio tipo di scuola destinato a perpetuare in quello strato una determinata funzione tradizionale. Se si vuole spezzare questa trama, occorre dunque non moltiplicare e graduare i tipi di scuola professionale, ma creare un tipo unico di scuola preparatoria (elementare – media) che conduca il giovane fino alla soglia della scelta professionale, formandolo nel frattempo come uomo capace di pensare, di studiare, di dirigere o di controllare chi dirige. Il moltiplicarsi di tipi di scuole professionali tende dunque a eternare le differenze tradizionali, ma siccome, in esse, tende anche a creare nuove stratificazioni interne, ecco che nasce l’impressione della tendenza democratica. Ma la tendenza democratica, intrinsecamente, non può solo significare che un manovale diventi operaio qualificato, ma che ogni ‘cittadino’ può diventare ‘governante’ e che la società lo pone sia pure astrattamente nelle condizioni generali di poterlo diventare”. Concetti chiave. Che sarebbero stati ripresi qualche anno dopo da un altro grande studioso italiano, Piero Calamandrei, liberale, uno dei “padri costituenti” e poi racconti in un libro prezioso, “Per la scuola”, ripubblicato nel 2008 da Sellerio (“Non si ha vera democrazia là dove l’accesso all’istruzione non è garantito in pari misura a tutti”).

Studio come diritto, dunque. E contemporaneamente come dovere. Nota Gramsci: “Anche lo studio è un mestiere e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio anche nervoso-muscolare, oltre che intellettuale: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo e il dolore e la noia. La partecipazione di più larghe masse alla scuola media tende a rallentare la disciplina dello studio, a domandare facilitazioni. Molti pensano addirittura che la difficoltà sia artificiale, perché sono abituati a considerare lavoro e fatica solo il lavoro manuale. È una questione complessa. Certo il ragazzo di una famiglia tradizionalmente di intellettuali supera più facilmente il processo di adattamento psicofisico: egli già entrando la prima volta in classe ha parecchi punti di vantaggio sugli altri scolari, ha un’ambientazione già acquisita per le abitudini famigliari. Così il figlio di un operaio di città soffre meno entrando in fabbrica di un ragazzo di contadini o di un contadino già sviluppato per la vita dei campi. Ecco perché molti del popolo pensano che nella difficoltà dello studio ci sia un trucco a loro danno; vedono il signore compiere con scioltezza e con apparente facilità il lavoro che ai loro figli costa lacrime e sangue, e pensano ci sia un trucco. In una nuova situazione politica, queste questioni diventeranno asprissime, e occorrerà resistere alla tendenza di rendere facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato. Se si vorrà creare un nuovo corpo di intellettuali, fino alle più alte cime, da uno strato sociale che tradizionalmente non ha sviluppato le attitudini psicofisiche adeguate, si dovranno superare difficoltà inaudite”.

Ancora cercando tra i “classici”, si possono considerare le lezioni di don Lorenzo Milani, a cominciare da “Lettera a una professoressa” da una scuola di Barbiana, sulle funzioni delle scuola, le pari opportunità dell’accesso all’istruzione e i diritti-doveri di cittadinanza. Riflessioni di mezzo secolo fa, è vero. Da ricondurre al loro contesto storico, per capirne senso e incidenza. Ma anche, al di là della storicizzazione, da rileggere nelle dimensioni d’attualità. Proprio adesso che, anche nelle migliori scuole e università anglosassoni, proprio l’importanza degli studi classici e del latino soprattutto assume particolare rilevanza (ne abbiamo scritto in un blog dei mesi scorsi) per la formazione culturale in generale, ma pure con particolare attenzione alla cultura d’impresa.

Antonio Calabrò

Giornalista, scrittore e vicepresidente di Assolombarda

http://www.huffingtonpost.it/antonio-calabro/gramsci-latino-greco-_b_11585890.html#

globetheatre

Interessato al mondo della comunicazione e formazione in generale, (e in particolare al più importante mezzo di comunicazione di massa, come quello televisivo) nelle sue mille sfaccettature, in considerazione dell’importanza crescente che i processi di comunicazione acquisiscono nell'ambito della società moderna determinando così profondi cambiamenti nei modelli di comportamento e nelle relazioni sociali. Sono altresì interessato al processo di formazione dell'arte in una società tecnologicamente avanzata come la nostra, in cui la realtà virtuale è sempre più pressante e invadente. L’attività si sviluppa attraverso un’associazione che opera in continuità con la propria vocazione no profit e che incarna la vocazione alla partecipazione e alla ricerca presupposti irrinunciabili ai fini di una coerente ed efficace azione progettuale e una società dedicata alle componenti progettuali e gestionali dell’azione in campo culturale, e che consente una risposta più efficace e pertinente alla crescente domanda di un approccio imprenditoriale e di una visione aziendale nella gestione dei mercati culturali.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.