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Quando i nostri granai erano colmi

Nel paese dei continui allarmismi dove tutto passa e nulla rimane

La produzione italiana e le scorte di grano sono del tutto insufficienti a far fronte alla domanda di pane e pasta. No, non è una notizia “freschissima”, ciononostante è interessante parlarne. A lanciare l’allarme non è stato un pinco pallo qualsiasi, ma una delle più importanti organizzazioni sindacali qualche anno fa; la Coldiretti. E regolarmente ogni tanto salta fuori la questione. Si dichiara, in sostanza, che le nostre scorte sono ormai ridotte al lumicino, sufficienti ancora per pochi mesi e non oltre. Ed è qui che la cosa si fa interessante. Ma come è andata a finire la questione? Si sono poi svuotati i nostri granai? Non lo so, non sono riuscito a capirci niente. O forse non è così e ci troviamo di fronte all’ennesima bufala? E’ possibile. Nel paese dei diritti sempre promessi e mai dati, delle contrapposizioni sociali, delle continue lamentele, critiche, allarmismi, nel paese delle emergenze, l’abitudine sembra essere sempre la stessa; lancio il sasso e ritiro la mano. Nessuna risposta. Silenzio. Fino a quando non si dichiara lo stato di emergenza. E allora saltano su i numeri di emergenza, le squadre di emergenza. C’è persino una psicologia di emergenza. E poi dicono che non è straordinario questo paese. Lo è eccome! Pensate. Fino agli anni ’80 la produzione di grano era simbolo di abbondanza e prosperità e quindi di forza e potere. Stati Uniti e Russia si confrontavano anche in base alla quantità di grano prodotta e l’Italia era tra i maggiori produttori mondiali. Non poteva essere diversamente, vista anche la nostra dieta mediterranea. Oggi siamo costretti a importarne una buona fetta. Non so esattamente quanto, ma dovrebbe essere intorno al 40%. Perché non abbiamo più l’autosufficienza? La globalizzazione che ha portato negli ultimi 20 anni alla distruzione dei mercati interni dei singoli paesi, non solo l’Italia, a favore delle importazioni in mano ai grandi gruppi e con una velocità impressionate ha spiazzato numerosi imprenditori. Tutti o quasi sono ormai completamente dipendenti dalle importazioni, specialmente in campo alimentare e soprattutto nel settore strategico per un paese, quello del grano. Un paese i cui i granai sono vuoti ha perso ogni indipendenza e libertà. E la comunità europea che elargiva contributi per non coltivare il grano, forse lo fa ancora non lo so. Nel 1985 costava 50.000 lire al quintale, mentre fino a 5 anni fa era arrivato a 12 euro (24.000 lire). Oggi dovremmo essere credo a 22 euro circa al quintale pagato al produttore. Non è interessante questo dato? A fronte di un prezzo del grano, pagato al produttore, di 22 euro al quintale, abbiamo un prezzo del pane che come media costa 270 euro al quintale (2,7 euro al chilo) ovvero 12,27 volte superiore al prezzo percepito dall’imprenditore agricolo. Non chiamatela speculazione, per favore. Piccolo dato statistico: dal 1985 il pane è aumentato del 419% mentre il prezzo ai produttori è costantemente sceso.

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globetheatre

Interessato al mondo della comunicazione e formazione in generale, (e in particolare al più importante mezzo di comunicazione di massa, come quello televisivo) nelle sue mille sfaccettature, in considerazione dell’importanza crescente che i processi di comunicazione acquisiscono nell'ambito della società moderna determinando così profondi cambiamenti nei modelli di comportamento e nelle relazioni sociali. Sono altresì interessato al processo di formazione dell'arte in una società tecnologicamente avanzata come la nostra, in cui la realtà virtuale è sempre più pressante e invadente. L’attività si sviluppa attraverso un’associazione che opera in continuità con la propria vocazione no profit e che incarna la vocazione alla partecipazione e alla ricerca presupposti irrinunciabili ai fini di una coerente ed efficace azione progettuale e una società dedicata alle componenti progettuali e gestionali dell’azione in campo culturale, e che consente una risposta più efficace e pertinente alla crescente domanda di un approccio imprenditoriale e di una visione aziendale nella gestione dei mercati culturali.

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