Vendiamo cultura, non abiti
(ma non sappiamo raccontarlo)
La filiera, fatta di imprese e laboratori che hanno sviluppato saperi e competenze, ha permesso il fiorire del Made in Italy. Ora il mercato è cambiato: l’oggetto, per avere valore, deve far vivere un’esperienza. E i francesi lo hanno capito per primi
di Daniela Monti
Vendiamo cultura, non abiti. Un titolo che ci ricorda qualcosa, scritto parecchio tempo fa.
«Produciamo cultura ed è questo che rende straordinari prodotti altrimenti ordinari», dice Marco Bettiol, ricercatore di Economia e Gestione delle Imprese all’Università di Padova, docente di Internet Marketing e autore di «Raccontare il Made in Italy» (Marsilio). La moda italiana vende cultura, prima che pezzi di stoffa o di cuoio.
Quello che si scriveva era esattamente questo. “Un tempo l’esistenza dell’impresa si giustificava nella sua capacità di fare profitti; oggi invece si giustifica nel produrre valori. Un’affermazione questa, a prima vista sconcertante, ma che diventa semplice con un esempio. Nell’ultimo paio di scarpe che abbiamo comprato, noi abbiamo pagato al 75% o la loro estetica (il fatto che fossero di moda per esempio), o che ci piacessero; e solo al 25% la loro funzione di coprirci i piedi. In altre parole quindi, non si producono più semplicemente oggetti; bensì piaceri, sensazioni, emozioni. E’ questa appunto l’economia immateriale il cui valore aggiunto è determinato da fattori estetici e creativi. Ma come si produce questo valore aggiunto?
E’ qui. http://ilblogdelvenditore.altervista.org/cultura-impresa/
L’articolo sopra citato, da leggere senz’altro è a questo indirizzo.