la nostra e l’altrui cultura

La capacità di comprendere le persone, tenere separati i propri sentimenti, desideri e aspirazioni da quelli degli altri. Comprendere situazioni diverse, sapersi destreggiare in contesti sociali difformi, imparare semplici regole della vita di gruppo cogliendone pregi e limiti, sviluppare relazioni scambi comunicativi e strategie di interazioni efficaci e differenziate.

La cultura può essere un mezzo da usare per questo? Si, no, forse…

siamo esseri sensibili, dove ogni fibra del corpo è creata per sentire vita

la nostra e l’altrui cultura

Gli ultimi anni hanno segnato l’inizio di una nuova realtà sotto molti aspetti. Tutto in costante cambiamento, grandi effetti dei social media su ogni aspetto della vita, cambiamenti nelle politiche estere e molti altri fattori, hanno influenzato l’economia locale e globale. Di conseguenza la cultura. Questo spazio è dedicato ad un argomento a nostro avviso fondamentale per comprendere e riflettere su ciò che è la cultura e su ciò che sarà. Noi e gli altri.

Un’immensa ricchezza di pensiero, di arte, di musica, di poesia, ha fatto dell’Italia, un luogo unico e straordinario: quello che tutti desiderano, e hanno sempre desiderato conoscere, possedere e forse, proprio per questo distruggere…

La società multiculturale e multietnica

persona

La persona, la sua realtà di creatura libera e responsabile, costituisce il cuore della vita, il punto sorgivo di una libertà sempre desiderata e mai raggiunta.


hegel2

L’idea di un essere assolutamente libero è tipico della modernità. La libertà è o non è

Solo uno stupido, a questo punto, potrebbe pensare alla libertà come qualcosa che gli permette di fare ciò che vuole ovunque, con chiunque. La libertà è sentirsi liberi di scegliere la propria vita, i propri modi di espressione.

Se non ci si ricorda di essere uomini liberi, si accettano imposizioni, limiti, compromessi o si fanno imposizioni ad altri, e si dimentica che chi è libero deve rimanere libero per poter creare armonia attorno a sé. Una libertà che va compresa in modo ampio e luminoso. Una parte del cuore, non una disquisizione filosofica.

Quando si vive un rapporto con altri, la propria libertà va protetta e rispettata totalmente, così come va rispettata e protetta la libertà di chi ci è accanto.

Qui molte sono le possibili obiezioni

La libertà di scegliere un gusto spregevole e orrido, si è possibile.

La libertà di scegliere prodotti pronti al consumo, con il solo scopo di fornire una gratificazione immediata ad una società ormai scollegata da ogni tradizione, tutti pronti a cibarsi di una cultura “pret-a-porter” servita dai grandi mass-media, si è possibile.

Possono esserci scelte da noi ritenute incoerenti, informi o ripugnanti, è possibile. Scelte che potrebbero spazzare via come foglie dal vento le sonate di Bach, le sinfonie di Beethoven, le opere di Verdi, i canti gregoriani, le melodie polifoniche, le laudi, i canti medievali sacri e profani, è possibile

Una libertà che potrebbe toglier via dai muri dei musei le tele delle opere più famose, derise, sbeffeggiate da nuove forme d’arte, anche questo è possibile.

Impegnarsi nella lettura di una poesia di Ungaretti o un brano della Divina Commedia, ed essere etichettati come tradizionalisti, è possibile.

Ma non ci saranno macerie, se continueremo semplicemente a raccontare la storia di una cultura costruita pietra su pietra, senza lamenti, senza esigere pietà, cordialmente con quella dignità che toglie il fiato e stringe il cuore.

Siamo inevitabilmente destinati a diventare una società sempre più eterogenea, variegata e mista. L’Europa è terreno di enormi flussi migratori e la novità rispetto al passato è che non abbiamo nessun modello precedente a cui poterci ispirare. Ripensare il rapporto tra identità, integrazione ed immigrazione è diventato estremamente difficile. Molto spesso si oscilla tra il multiculturalismo ed il nazionalismo, tra l’apertura indiscriminata delle frontiere e la chiusura ad oltranza. Le élite culturali e politiche di gran parte dei paesi occidentali non hanno alcuna idea veramente convincente di cosa fare. Da una parte c’è un’enorme richiesta di nuove misure di contrasto all’immigrazione, dall’altra, la politica ha spesso difficoltà a trattare in modo organico, senza ideologismi ed in maniera neutra un tema come questo, sempre di grande attualità. Bisogna, dunque, ripensare e ristabilire i parametri nel rapporto tra l’identità nazionale e il fenomeno dell’immigrazione e per realizzare questo compito le parole d’ordine del passato, multiculturalismo da una parte e nazionalismo dall’altra, sembrano non offrire più quel patrimonio concettuale sufficiente a risolvere la questione.

La multietnicità non è un fatto nuovo, bensì antico quanto le vite dei popoli, dovuto alle migrazioni che da sempre ne caratterizzano le storie e gli sviluppi

Il multiculturalismo è invece un modello culturale determinato, peculiare, vale a dire non la fotografia di una situazione (multietnicità), ma un modello interpretativo di essa, che mira a orientarla in una direzione precisa: è un progetto di società, promosso da un certo tipo di Stato laico, cioè a dire laicista, in cui le identità culturali e religiose vengono considerate «ospiti» equivalenti e perciò perfettamente equiparabili di un contenitore politico-istituzionale, lo Stato, appunto, il quale si colloca rispetto ad esse in una posizione di neutra superiorità, di sorvolo, e fa di tale neutralità ed equiparazione la propria filosofia o cultura. La multietnicità e la conseguente compresenza del portato di diverse tradizioni culturali e religiose in una medesima società, è insomma una situazione antica e nota; il multiculturalismo è invece una posizione culturale nuova, espressione politico-istituzionale di forme di relativismo sul piano filosofico (il relativismo è, in qualche modo, la filosofia più compatibile con un certo modello di globalizzazione: è, per così dire, un equipaggiamento leggero, particolarmente adatto alle necessità di un mercato globale). La denuncia dell’etnocentrismo (atteggiamento di chi tende a giudicare le culture di altre epoche o di altri popoli a partire dai valori e criteri della propria cultura di appartenenza) porta a una relatività degli ordini culturali. Nelle società primitive, cultura e natura si confondono, nelle società moderne – più “riflessive” e a contatto con altre culture – questa distinzione è più chiara, e forme di “relativismo culturale” sono inevitabili.

Perché è importante

Si fa un gran parlare di multiculturalismo. Talvolta, però, c’è un’incomprensione di fondo che porta a dare per scontato il significato di un termine, che non è affatto così intuitivo. Il discorso sul multiculturalismo si sviluppa soprattutto come corollario delle conseguenze prodotte dai flussi migratori, dalle ex colonie prima, poi dai paesi più poveri. L’immigrazione verso l’Europa dei poveri del mondo è considerata la causa sia dei crescenti problemi sociali, sia della crescente diversità culturale, con i relativi problemi di convivenza che questa comporta.

Un dato ormai caratterizza tutti i Paesi dell’Unione: siamo società multiculturali. Ma lo siamo veramente?

Molti usano i termini “plurietnica o pluralistica” come sinonimi di società multiculturale, dando ad essa la seguente definizione: “società pluralistica intesa come contesto di incontro e interazione continuata tra individui appartenenti a tradizioni culturali distinte”. (Dizionario di Antropologia, a cura di U. Fabietti – F. Remotti, Zanichelli, Bologna, 1997, pag. 693)

martello

Ad una definizione così sempliciotta nessuno più crede. Sarebbe come se alla domanda “che cos’è un martello?” rispondessimo con una descrizione accurata della sua forma senza mai accennare all’uso che ne facciamo.

Letteralmente con il termine “multiculturalismo” vogliamo indicare “la contemporanea presenza di diverse culture in una società”. D’accordo! Sembra una cosa piuttosto ovvia. La domanda è: e allora? E’ un dato acquisito, possono esistere diverse culture anche fra persone (comunità) che parlano la stessa lingua nello stesso paese. Subculture (gruppi sociali i cui membri hanno interazioni così forti da sviluppare significati propri, diversi dall’ambiente culturale che sta loro intorno); essi condividono un linguaggio, delle norme di convivenza, alcune preferenze di consumo, degli stili di vita. Un caso estremo è la subcultura mafiosa.

Dunque, se il multiculturalismo è un dato acquisito e la multietnicità un fatto, di cosa ci preoccupiamo, di che parliamo?

Non è così semplice evidentemente, in gioco c’è altro; il tipo di relazione che queste culture (e le persone che ci vivono dentro) devono avere fra loro.

Quello multiculturalista è un modello assai recente, un cantiere di sperimentazioni in corso, inconcepibile senza l’utopia tardo-liberale di una riduzione tecnico-amministrativa della politica in funzione di una tecnocrazia mondiale meramente economica. Presentandosi come concessione dei cosiddetti «diritti collettivi» ai vari gruppi etnici, il multiculturalismo si è mostrato alla prova dei fatti come il programma o la teorizzazione di una coesistenza senza convivenza, senza «rapporto», di una compresenza di segregati, di una mera giustapposizione di estrinseci.

Multiculturalismo non significa affatto, dunque, la convivenza fra più culture in un unico Stato, caratteristica di tutte le società aperte, quanto un programma ideologico – politico, fondato su alcuni sottaciuti principi elementari che si ispirano vagamente al comunitarismo e al relativismo culturale: “non esistono gli individui, esistono le comunità”; “tutte le comunità e le loro regole morali hanno pari dignità”. Potremmo anche essere d’accordo, ma non è cosi semplice. Se applicassimo questo principio alla lettera, dovremmo concedere il “diritto” ad ogni cosa che si richiama ad una tradizione; alla poligamia (o all’infibulazione) per quelle comunità che praticano, oppure riconoscere l’inferiorità giuridica di certe caste sociali o delle donne, se richiesto da comunità che tradizionalmente praticano la discriminazione di casta o sessuale. Accettare per legge i matrimoni con le spose bambine perché “è una pratica della cultura dei migranti che arrivano nel Paese”. È la dichiarazione rilasciata durante un’intervista da Osama El-Saadi, imam della moschea di Aarhus, in Danimarca. L’imam ha esortato il governo ad accettare le spose bambine e di guardare la situazione da una “prospettiva diversa”. “Questa si tratta di una straordinaria situazione umanitaria e penso che bisogna prendersi cura di queste famiglie. Sono sposati e, anche se l’uomo è due volte più vecchio, hanno comunque costruito una famiglia. Dobbiamo accettare il fatto che si tratta di una cultura diversa”, ha dichiarato El-Saadi.

BT_banner

http://www.bassamtibi.de

Euro-Islam, Marsilio, Venezia, 2003 

Importante la posizione di un’intellettuale islamico come Bassam Tibi il quale parla di integrazione mancata e di come poter vivere, da musulmani, nel contesto europeo.

Bassam Tibi

(B. Tibi in Euro-Islam analizza la situazione tedesca dove uno straniero anche naturalizzato, resta sempre Gastarbeiter anche dopo 40 anni di permanenza in Germania, come nel suo caso: è cioè una integrazione mancata)

Tibi si definisce portatore di un islam liberale pienamente compatibile con l’Europa.

(Non tutti usano il termine liberale. Alcuni intellettuali islamici, infatti, lo ritengono un concetto inadatto a descrivere l’islam poiché di natura essenzialmente europea. Cfr. in tal senso Introduzione di Nina Fürstenberg al suo Lumi dell’islam, Marsilio, Venezia, 2004, pagg. 7-24)

Secondo la sua visione è meglio parlare di pluralismo culturale piuttosto che di multiculturalismo poiché solo il primo termine rimanda all’idea di vita con gli altri, implica uno scambio, un’interazione. Naturalmente il vivere insieme presuppone un consenso minimo: quello sui valori costituzionali (democrazia, pluralismo, tolleranza, diritti umani, stato laico) che sono inseriti entro la cornice culturale europea: l’Europa non può neppure negare se stessa, dice Tibi. Mentre una cattiva interpretazione di pluralismo culturale, o come dice Tibi il multiculturalismo, porta semplicemente a vivere gli uni accanto agli altri, ma senza scambio né comunicazione.

E’ questa, a detta dell’autore, la situazione in cui prospera il (cd.) qualunquismo valoriale, che produce un serio pericolo: quello della formazione di società parallele, chiuse su se stesse e staccate dal contesto di accoglienza, una sorta di enclavi islamiche, vivaio ottimale per i fondamentalismi.

Tibi con il suo islam liberale e non incompatibile con l’assunzione di una identità laica di tipo europeo, non vede contraddizioni in queste due appartenenze (europea e musulmana).

Il concetto di Euro-Islam di Tibi parte infatti dal presupposto dei diritti umani individuali, entro cui trova posto anche il diritto, costituzionalmente garantito, alla libertà di religione, anch’esso diritto individuale. Non vede contraddizione ad assumere l’identità laica europea, purché (e perché) non sia la sola esprimibile: l’individuo può infatti avere identità multiple come ad esempio, nel caso dell’autore: siriano (identità etnica), musulmano (identità religiosa), tedesco (identità politica, di cittadino), insegnante universitario, padre, marito (identità del quotidiano).

(L’identità non è quindi qualcosa di fisso ed immutabile ma interagisce col contesto e cambia anche nell’arco della stessa giornata quando recitiamo i nostri diversi ruoli: ibidem, pag.106)

Mentre gli islamisti, o i musulmani ortodossi più radicali, sostengono che un musulmano abbia una identità fissa ed immodificabile, al Cairo come in Germania, incapace di vivere entro un ordinamento laico: questa è un’idea esasperata secondo Tibi ed evidenzia la mancanza di volontà di integrazione di islamisti ed ortodossi radicali: non si può chiedere di introdurre la Sharia in Europa. Queste richieste estreme possono però essere prevenute se si adottano strategie di integrazione efficaci: a salvaguardia della propria identità ma senza offrire il fianco alla formazione di società separate. Bisogna conoscere la Costituzione, per fruire dei propri diritti e distinguere assimilazione da integrazione: “gli islamismi spesso generano confusione tra questi due termini dandone lo stesso contenuto e rifiutando entrambe le ipotesi”, osserva Tibi.

Inoltre, dice Tibi, anche ai tedeschi andrebbe insegnata la “cultura costituzionale”…

(Cultura della costituzione intesa come comunità valoriale comune ad immigrati ed autoctoni. Ibidem, cfr. pag.110)

…poiché l’identità di cittadino, pur riconosciuta dalla Costituzione, non fa parte della cultura politica di molti tedeschi: bisogna far si che si affermi. In altre parole: non basta un passaporto a garantire l’integrazione, occorre sia la conoscenza (di costituzione e leggi) che un cambio di mentalità, da entrambe le parti. L’islam è insomma ciò che gli uomini fanno di esso. Affinché possa però nascere un Euro-Islam, dice Tibi, bisogna affrontare due tensioni tra islam e liberalismo.

La prima è la concezione della centralità dell’individuo che si oppone alla concezione ummica islamica in cui l’individuo ha senso solo in quanto parte del tutto: manca cioè una differenziazione netta tra individuo e comunità, cosa che per molti islamici rappresenta un ostacolo alla loro vera integrazione, come individui.

(Nina zu Fürstenberg, Lumi dell’Islam, Marsilio, Venezia, 2004. Cfr. pag.103-111, Intervista a Tibi. In questo saggio sono raccolte, sotto forma di interviste dell’autrice, le riflessioni di nove intellettuali islamici circa la “possibilità di sviluppo di un islam che entri in sintonia con la modernità ed il pensiero illuministico nel significato più ampio del termine” cioè di un islam in sintonia con il contesto europeo)

Bisogna, secondo Tibi, accettare, da islamici, il principio di laicità dello stato, come presupposto per una integrazione vera.

Il secondo scoglio riguarda la concezione olistica o ambientale, come la definisce l’autore. L’islam è una religione che tende a creare una relazione organica con la società, è un ambiente in cui non si riesce a separare chiesa da società, come avviene invece nel cristianesimo o nell’ebraismo. Nell’islam di fatto non c’è Chiesa, dunque senza Chiesa non c’è laicismo. Questo nei fatti significa che i musulmani, oltre ai riti ed alla fede in Dio, devono anche seguire prescrizioni che riguardano i vari ambiti dell’esistenza. Questo è secondo Tibi l’aspetto che andrebbe mutato attraverso una riforma dell’islam.

E’ questo il terreno su cui i musulmani devono entrare in campo per dare una interpretazione nuova dell’islam (l’Euro-Islam) che soddisfi il principio di separazione tra politica e religione e quindi la laicità dello Stato ed il rispetto dei diritti umani:

(Questo è quello che Tibi chiama in Euro-Islam, op. cit., la “cultura guida europea” (leitkultur nell’originale) mentre, nell’intervista contenuta in Lumi dell’Islam, N. zu Fürstenberg, op. cit., pagg.103-111, parla di “cultura di riferimento” come traduzione più adeguata per il termine tedesco leitkultur, cfr. pag.107)

se in Europa questo è possibile sarà anche assicurata una pacifica convivenza. Sono i musulmani che dovranno trovare una nuova interpretazione dell’islam che soddisfi le seguenti premesse: accettazione del laicismo e separazione tra politica e religione: questa la sfida futura.

Ma è necessario approfondire il contenuto dei concetti, per non fraintendersi.

Il concetto di dialogo, dice Tibi, ha ad esempio contenuti diversi nelle due tradizioni: nell’islam significa dialogo con Dio, chiamata all’islam, è proselitismo, non è scambio come nella concezione europea. Adattamento, dunque, non significa assimilazione ma compatibilità con l’identità europea attraverso l’adozione dell’Euro-Islam, delineato da Tibi nei suoi tratti fondamentali, ma che dovrà essere elaborato nel dettaglio e che presuppone, da parte musulmana, l’accettazione del principio di laicità ed il rifiuto dei fondamentalismi ma anche un cambio di mentalità che produca una volontà reale di integrazione, e questo da parte di tutti. La tolleranza dell’altro ha come presupposto la sua conoscenza: la tolleranza è anche comprensione, ed implica la possibilità di dissentire. E’ il fondamentalismo che non deve essere tollerato, questo anche nell’interesse dei musulmani che vivono in Europa, sottolinea più volte l’autore. Anche nell’analisi di Tibi, che parla usando concetti occidentali

(Il linguaggio di Tibi appare più immediato e comprensibile per l’Occidente – prima euro poi islam -, diversamente da altri che non usano mai il termine laicità dello Stato né insistono sulla separazione delle sfere politica/religione: è un altro tipo di linguaggio diretto in primis ai musulmani europei, – prima musulmani poi europei -)

…si evidenzia la necessità di un atteggiamento attivo da parte dei musulmani europei oltre alla esigenza di una nuova mentalità, capace di cavalcare i tempi e di coinvolgere tutti.

Ora, criticare il multiculturalismo è molto facile, così come non criticarlo. I multiculturalisti duri e puri – quelli per i quali anche l’infibulazione è il prodotto di una società e quindi degno di rispetto –  sono pochissimi, e spesso la critica al multiculturalismo viene usata come alibi per non proporre soluzioni davvero alternative.

Un paradosso? E’ possibile

Il multiculturalismo è, in una frase, il rifiuto dell’ideale cosmopolita dell’Illuminismo: la negazione dell’esistenza di un tratto di umanità comune, universalista, che riconosce dignità all’individuo. Viene considerata oppressiva e/o illusoria l’idea che ci siano valori comuni, trasversali a ogni cultura, come i diritti umani, l’intangibilità della persona, le libertà individuali o la parità dei sessi. Al posto della persona, ciò che viene considerato un valore è la cultura in quanto tale. Non sono gli individui a dover essere tutelati, quanto le società e il bacino di valori che esse portano.

Per questo il modello multiculturale è quello (paradossalmente) della non-integrazione, in cui le diverse comunità ricreano i loro distinti ecosistemi senza possibilità di comunicazione. In questo senso, le società vengono considerate come concetti estremamente statici, impermeabili a qualunque cosa e perciò al cambiamento. Il cambiamento endogeno è molto difficile (perché difendendo una società, si difende chi comanda in quella società); quello esogeno è completamente escluso: e ciò non vuol dire soltanto che un occidentale che critica la condizione femminile in Arabia Saudita è fuori posto, ma che lo è anche un olandese che critica l’assenza di diritti civili in Italia.

Ogni iniziativa intrapresa su base esplicitamente etnica non può non avere come effetto un impatto negativo, con il risultato di una maggiore segregazione dei gruppi etnici e la comparsa di uno strato relativamente privilegiato di capi comunitari, i cui interessi si trovano nella conservazione dell’esclusività etnica, poiché essa dà loro il controllo dei cordoni della borsa […]. Uno strato privilegiato di capi comunitari è stato favorito tramite la creazione di posti di consulenti in relazioni inter-razziali, mentre la maggior parte dei membri delle loro comunità svantaggiate hanno continuato a soffrire per lo stato miserevole degli alloggi, per i servizi educativi superficiali, per la discriminazione sul lavoro e per i bassi salari.

C’è un’alternativa?

Causa e conseguenza di questa posizione è la diffidenza nei confronti del potere della ragione e il rifiuto di qualunque idea di progresso. Una società che riconosce un diritto (qualunque esso sia) non è migliore di per se (o più progredita) di una che non lo faccia. In questo senso il multiculturalismo è un’idea intimamente anti-progressista ed endemicamente conservatrice. Chi si oppone a questa idea, invece, sostiene che è possibile identificare un valore di una cultura e questo dipende da quanto essa garantisce la felicità (o la minore sofferenza) agli individui che ci vivono dentro.

Nella pratica, qui in Europa abbiamo due esempi: il Regno Unito, più tendente al multiculturalismo, dove – specie a Londra – vivono una quantità enorme di comunità diverse, quasi compartimentate fra loro, in quelli che i detrattori definiscono dei veri e propri ghetti. Questo modello di non-integrazione è riconosciuto quasi universalmente come fallimentare. Il problema è che neanche il modello francese, improntato sull’assimilazione al cui cuore c’è la laicità, si è mostrato esente da difficoltà, come le rivolte nelle banlieue del 2005 hanno testimoniato.

La polenta è meglio del cuscus?

In moltissimi criticano il multiculturalismo proponendo un sistema che, scavando soltanto un poco, gli è esattamente identico. L’illusione è che l’alternativa al multiculturalismo possa essere di due indirizzi: quello identitario e il melting pot. Il primo risponde “focalizziamoci sui nostri valori”, il secondo “mescoliamoci e proviamo a uscirne migliori”. In realtà, la prima di queste risposte – quella che si concentra sulla propria identità – è una risposta fasulla. Perché è proprio il multiculturalismo a essere, per sua essenza, identitario. Non è un caso, difatti, che una ricetta identitaria a casa nostra, diventa, appena sopra Chiasso, squisitamente multiculturale. I diritti delle donne nei Paesi mussulmani? Ognuno fa come vuole a casa propria.

Non è difficile notarlo, ma il concetto che ognuno fa come vuole a casa propria è precisamente quello del multiculturalismo. Quindi, come si può produrre un’argomentata critica al multiculturalismo e poi proporre come soluzione quella di accartocciarsi sulla propria identità? Come si fa a criticare l’impermeabilità delle culture e poi avvinghiarsi alle radici giudaico-cristiane? Come si fa a parlare di valori non negoziabili e poi invocare la reciprocità (allora la libertà religiosa non è un’idea giusta in ogni luogo e in ogni tempo, è soltanto un contratto di scambio)?

Non necessariamente la polenta è migliore del cuscus perché l’abbiamo inventata noi.  Un minimo di fiducia nei miscugli – d’idee, di cose, di persone – è pur sempre necessaria. Forse l’unica vera alternativa al multiculturalismo è credere nel potere della ragione: nella forza delle idee e non nel loro contenitore. Ci sono idee migliori di altre, non serve chiedergli la carta d’identità o il certificato di battesimo.

Identità come valore relazionale

La questione che riveste anzitutto un ruolo centrale è quella dell’identità, ovvero la paura della perdita dei propri valori e della propria specificità. L’esplosione di razzismi incrociati è spesso espressione di una volontà di conservazione della propria identità. La convivenza multietnica e multirazziale può sollevare senza dubbio in proposito problemi seri che non possono essere sottovalutati quando a essere sconvolte non sono solo le abitudini quotidiane, ma, più profondamente, lo stesso sistema di valori sul quale viene articolandosi l’ordinamento della vita personale e collettiva, con il risultato di accentuare il sospetto e la paura dell’altro. Ma, a ben guardare, la ragione ultima di questo sospetto e di questa paura va ricercata nell’assenza di identità consolidate e ben definite. Il timore della perdita dell’identità è direttamente proporzionale alla sua scarsa consistenza. Laddove identità soggettiva e senso dell’appartenenza collettiva si indeboliscono – ed è questa oggi la situazione propria della nostra società – si produce uno stato di vulnerabilità che sollecita, per reazione, la nascita di atteggiamenti di chiusura. La perdita di identità costituisce piuttosto il presupposto per la caduta di ogni comunicazione. La diversità è infatti avvertita come attentato alla identità, come sradicamento dalle proprie certezze che, per quanto limitate, sono tuttavia il necessario supporto delle scelte personali e sociali. Il passaggio da una visione negativa della diversità, che genera rifiuto, a una visione positiva, per la quale essa si trasforma in occasione di arricchimento, è dunque correlato all’acquisizione di un’identità forte e insieme dialogica. Essa comporta, da un lato, la consapevolezza dell’importanza che rivestono gli elementi del proprio sistema culturale e, dall’altro, la chiara percezione del limite che li contrassegna, e perciò dell’utilità di una loro interazione con elementi di altri sistemi. L’apertura all’altrui diversità è infatti strettamente legata alla capacità di accettare e di sviluppare la propria diversità. L’identità, anziché indurre isolamento, si qualifica, in questa prospettiva, come valore relazionale; a essa è infatti possibile accedere in modo vero solo in un rapporto costante e fecondo con altre identità, quando tale rapporto è vissuto nel segno di un’autentica reciprocità creativa. L’arricchimento tra culture diverse si verifica pertanto quando esse, anziché rinunciare alla propria identità, la affermano e la rafforzano nel quadro di un incontro sorretto dalla ricerca di obiettivi comuni e di una comune solidarietà. La complessità, che caratterizza il presente momento storico, spinge purtroppo i singoli e le stesse culture verso processi di semplificazione dell’identità con la tendenza ad assolutizzare il proprio punto di vista. Il rifiuto delle culture diverse è perciò conseguenza del rifiuto della propria diversità occultata o rimossa. Il diverso diventa disturbante perché ci pone drasticamente di fronte ad aspetti della nostra identità ai quali abbiamo troppo sbrigativamente rinunciato. Egli ci fa entrare radicalmente in discussione, obbligandoci a rivedere criticamente il nostro paradigma di realizzazione. Identità debole e identità parziale sono, in definitiva, due modi sbagliati di definire l’identità, che alimentano uno stato di indeterminazione e di insicurezza da cui discende la chiusura verso l’altro.

Pur considerando la diversità come ricchezza, non si può tuttavia ignorare che essa è, di sua natura, suscitatrice di conflitto. L’impatto con mondi culturali diversi non può non ingenerare tensione e difficoltà di comunicazione. Sarebbe, d’altra parte, ingiusto concepire la conflittualità come un dato meramente negativo. Essa è una dimensione costitutiva della condizione umana con risvolti altamente positivi tanto sul terreno della crescita personale che sociale.

countdown-clock

per concludere

La comunicazione è una risorsa indispensabile di ogni essere “umano”. Ovviamente la parola, cioè la lingua. Una risorsa particolarmente evoluta e strutturata, per vocabolario e sintassi, come per modi di esprimersi, ritmi e tonalità. Ma si tratta anche di espressione artistica. Rappresentazioni simboliche e rituali, che sono pittura e scultura, ma al tempo stesso una forma di comunicazione scritta, anche se non “testuale”. Oggetti non solo utili, ma pensati e realizzati con gusto estetico. Non è pensabile alcuna comunità in cui non ci siano anche la musica e l’architettura. Anche la danza, lo spettacolo, la poesia, la letteratura e l’abbigliamento (che non è mai stato solo funzionale:  il più “nudo” degli umani si addobba con vesti, accessori o colori che sono contemporaneamente espressioni estetiche e codici di identità o di appartenenza). Ma non può esistere umanità senza uno sviluppo, ricco e complesso, di tutte queste risorse. E in nessun’altra specie c’è quella particolare combinazione di tecnica ed estetica, di funzionale e simbolico, che si riassume nella tradizionale, quanto chiara, definizione “arti e mestieri”.

Un destino da compiere e una libertà da conquistare

Un’azienda culturale in una società multiculturale?

L’immissione del mondo musulmano, in una società divisa dominata da una cultura di massa e quindi cultura indifferenziata, che tende a omologare la vita e le sue espressioni secondo standard di consumo destituiti di pregnanza simbolica e di forza aggregante, segna la fine della possibilità di rappresentazione, di creazione simbolica, segna la fine di ciò che, almeno noi, eredi e continuatori di una civiltà classica, abbiamo sempre considerato come il “meglio”? E’ una domanda, al momento, senza risposta. Si, è vero, ci siamo ammazzati in innumerevoli guerre, non ci siamo fatti mancare il rogo dell’Inquisizione, né le stragi di invasori, pesti e carestie. Nonostante ciò abbiamo avuto la poesia di Dante e Petrarca e la musica di Verdi; il Dialogo dei Massimi Sistemi di Galileo e gli affreschi di Giotto; le cupole del Brunelleschi e le Primavere di Raffaello. E’ questa, almeno per noi, la vita. Orfeo riesce a convincere gli Dei a restituirgli dal mondo dei morti l’amatissima Euridice e si intravede, sotto il trasparente velo del mito, ciò che per noi è la Poesia e la Musica: Euridice ritorna, deve ritornare affinché Orfeo possa cantare. La musica vale più di qualsiasi Vita, è la Vita di qua.

Famosa la battuta nel film “Il terzo uomo” di Orson Welles: «In Italia, sotto i Borgia, per trent’anni hanno avuto guerra, terrore, omicidio, strage ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera, con cinquecento anni di amore fraterno, democrazia e pace cos’hanno prodotto? L’orologio a cucù»

Per quanto possa essere rischiosa e scomoda, è irrinunciabile l’arroganza di Prometeo.

Corre gravi rischi una misera umanità che rinunci a essere Ulisse (non lo sventurato Odisseo di Omero, che stava solo cercando di tornare a casa, ma l’Ulisse di Dante «fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza»)

Una volta esisteva un’enorme massa di individui e qualcuno li chiamava ancora popoli, che con la sola forza di volontà e passione, traducevano ogni loro fatica in beni di consumo essenziali, cultura, arte, tradizione, gioia e svago. Una ricchezza illuminata senza precedenti che abbiamo sputtanato in cambio di fabbriche fumanti, rifiuti e scorie tossiche, precarietà e depressione, povertà miseria e sfruttamento. Ma ancor peggio: l’individuo che percepisce l’uniformità o il conformismo sociale come “giusto e naturale”. Il comportamento non è dovuto ad una scelta individuale, ma a regole già preesistenti, ed egli non si accorge nemmeno di non avere possibilità di scelta. Non è più in grado di percepirlo, in quanto si è identificato con la realtà esterna a tal punto, da non riconoscere più le sue caratteristiche individuali.

Questo tipo di persona permette la creazione di masse, e la possibilità di prevedere il comportamento umano attraverso una serie di stimoli emotivi a lui diretti.

Ma dal momento che non siamo in alcun modo prigionieri di un Dio giudice e severo, che sia musulmano, cristiano o ebreo, proviamo a librarci nella libertà dell’intelligenza e della creatività; quella libertà che inventa, supera anche il sacro, per eventualmente comprenderlo di più.

Certo abbiamo a che fare con politici invasati dalla concretezza bruta del potere, in confronto ai quali la nostra voce è talvolta flebile, e fa fatica a farsi sentire; ma siamo artisti e professionisti capaci, dunque creatori di realtà e di vita. Senza l’arte, senza la musica, cosa e come saremmo? Chi l’ha detto che essa non abbia altre ispirazioni se non quelle di rappresentare il proprio tempo, di essere schiava del secolo, di essere strumento della dissacrazione? In verità, per millenni l’arte fu qualcosa d’altro: insopprimibile bisogno di senso, di comunicazione, di bellezza, di futuro. Ordine rispetto al caos. Talvolta caos rispetto a un ordine morto. Ma pur sempre gesto spirituale, celebrativo, sacro, fondante, in vista di nuovi mondi.

Per quella che oggi è solo morte non scomodiamo questo termine. Troviamone altri.

per concludere davvero

Un’epoca dominata dalla mediocrità?

Un vecchio articolo del Prof. Luca Lischi,  Sociologia dell’educazione Università di Firenze

dal quotidiano “Il Centro”

Viviamo in un epoca complessa, intrisa di “passioni tristi”, di rapporti frammentati. Facciamo fatica a vivere in questo presente che con i suoi ritmi sfida le nostre capacità di adattamento, soprattutto psichico. Siamo quasi incapaci di riprendere i ritmi lenti e necessari della natura, di tornare a gustare il tempo scandito dalla luce del sorgere del sole e del suo nascondersi al tramonto. E’ la fretta che domina e regola insensatamente la vita di ognuno. Prevale ormai, quasi come fondamento necessario e indispensabile, un modo di vita caratterizzato da un livello preoccupante di mediocrità. E’ la mediocrità della vita che si è sviluppata ovunque e a ritmi preoccupanti in particolare tra le nuove generazioni. Mediocrità nel sapere, mediocrità nel fare le cose, nel lavorare, nel dedicarsi ad ogni questione vitale e formativa per la crescita culturale delle nostre comunità. Mediocrità nel gestire le relazioni e gli affetti. Si affrontano le varie problematiche, sia quelle più semplici che quelle più complesse quasi sempre in modo approssimativo e con blanda motivazione. Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti: un livellamento culturale sempre più accentuato e tendente al basso per non dire insufficiente, stimoli incapaci di smuovere gli animi e suscitare passioni gioiose e dinamiche. Insomma siamo di fronte ad una assuefazione delle spinte verso l’alto, ma soprattutto c’è un’assuefazione del “non pensare”. Sono sempre più scarse le spinte atte a favorire una crescita cerebrale affinché il nostro cervello non rimanga povero. Esistono delle cause che hanno portato il nostro paese e le nostre comunità ad una mediocrità ai livelli di guardia. Si sono predicati i buoni propositi ma si sono incentivate le facili strade per raggiungere obiettivi onerosi; si è quasi eliminata quella necessaria “fatica di soffrire” e si sono considerati pedagogicamente sbagliati quei tempi intensissimi di lavoro, di studio e di abnegazione per raggiungere certi risultati. Si sono offerte le strade più dritte e sempre in pianura per non affrontare la fatica. La scuola ha elargito in massa premi per tutti facendo capire che basta frequentare e studiare il minimo per essere promossi e chi non lo sarà potrà comunque trovare scuole da super bonus: 5 anni in 1, se non diplomifici a portata di tutti coloro che hanno portafogli  non troppo vuoti. Quest’epoca ha privilegiato ogni possibile strada per raggiungere obiettivi altrimenti faticosi in modo assai poco oneroso e senza sacrifici e soprattutto ha privilegiato modelli che hanno denigrato le emozioni e le passioni. E non è un caso che i tanti mediocri sono quasi sempre stati premiati spesso a discapito di coloro che con sacrificio e caparbietà hanno dimostrato serietà, impegno e zelo nel raggiungere obiettivi difficili. Del resto basta fare alcuni screening tra i tanti soggetti che sono stati premiati non certo per le loro capacità o conoscenze o competenze. Insomma tanti hanno un curriculum alquanto deficitario, ricco forse di conoscenze di qualcuno che conta, ma povero di contenuto culturale e di esperienze edificanti che certificano le competenze. Non azzardiamo a parlare “di titoli”, perché si può essere titolati e scarsamente istruiti e si può essere istruiti e non necessariamente titolati. Ne sapeva certamente di più sul piano culturale e sulle dimensioni del rapporto relazionale con la comunità e con la natura un contadino privo di istruzione del secolo scorso, di un plurilaureato di oggi, con master al seguito e magari addestrato ai gerghi inglesoidi e al linguaggio di internet ma scarsamente capace di cogliere quella necessaria lettura del presente in cui vive perché incapace di relazionarsi come soggetto con l’ambiente e con i suoi simili. Siamo invasi dalla quieta infingarda dei mediocri che frena l’operosità, il fervore applicativo, la dedizione alle attività intraprese, l’amore per il lavoro, lo studio. Abbiamo grandi responsabilità di fronte alle giovani generazioni. Come sottolinea l’antropologo Giorgio Costanzo abbiamo tolto loro “il diritto di soffrire, ossia di sottoporre il sistema nervoso centrale ad una prassi esperienziale implicante un’intensa dinamica corticale”. Ad esempio abbiamo negato loro la capacità di conquistarsi le cose richiamandoli alla responsabilità personale del sacrificio, a mangiare e a gustare il cibo dopo aver provato veramente la fame. Continuiamo ad offrire modelli risibili, che incentivano il bene e poi premiano la mediocrità. Fuggiamo il dolore e facciamo di tutto perché le nuove generazioni ne siano esenti. Abbiamo costruito modelli fondati sul consumo: si consuma di tutto, beni e anche persone. Tutto diventa da consumare, usare e gettare. Tutto rischia di assumere i connotati di un rifiuto, a volte neppure da riciclare. La mediocrità di tali comportamenti non è più sopportabile per assicurare un futuro a noi stessi, alle giovani generazioni e in particolare ai nostri bambini. Dobbiamo avere il coraggio di ritornare a pensare. O saremo travolti dalla mediocrità di cervelli poveri capaci solo di alimentarsi di ciò che trovano comodamente standosene in poltrona a ingurgitare ciò che i media impongono quotidianamente in modo alquanto subdolo. Il cervello ha bisogno di alimentarsi, di superare la mediocrità e la faziosità del sistema economico della grande produzione e della finanza “che vuole dall’uomo la sua anima affinché diventi neutro, impotente, succube, ammassato, anoressico, sciocco ma imbonito, privo di valori, di cultura, senza identità”. “Ma la mediocrità è un controsenso biologico, insulta la stessa logica della vita, non determina progresso, non contiene amore, non crea cultura, è ripetizione e ristagno” (G. Costanzo – Il cervello povero). Quella ripetizione e quel ristagno che contraddistinguono la nostra epoca e dai quali è possibile uscirne con un nuovo impegno da parte di tutti: ritornare a pensare, rimettere al centro un’etica del benessere personale e sociale che domini l’etica del benessere materiale su cui troppo a lungo abbiamo fondato la nostra vita. Adesso abbiamo l’opportunità, con il superamento di un sistema economico liberista crollato perché fondato su un benessere illusorio, di riprendere un cammino, quello della costruzione di noi stessi, arricchendoci della realtà che ci circonda. Per essere capaci di interiorizzarla, unificarla, spiegarla a noi stessi, ai nostri figli. In questo aiutati dalla forza del pensiero, dalla sua bellezza, dalla fatica del leggere e anche dello scrivere che, come sottolinea lo scrittore Ernesto Ferrero, “restano gli strumenti migliori per capire di più noi stessi e il mondo”. Per cercare di essere meno mediocri e quindi più capaci di rendere quest’epoca vitale per noi stessi e per le future generazioni.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.